Sempre più di frequente mi viene chiesto come gestire la difficile situazione in cui ci si trova essendo l’allenatore del proprio figlio.
Nel calcio professionistico non avviene quasi mai, anche se negli anni possiamo trovare qualche nome illustre da Cesare Maldini che allenava Paolo, a De Rossi nella Primavera della Roma. Nel mondo delle scuole calcio, per scelta o meno, spesso tra i piccoli giocatori da allenare c’è il proprio figlio. A volte si è spinti da un inevitabile scelta logistica e a volte capita che la scelta non sia proprio casuale. Non mi sento di demonizzare a priori la situazione, ma invito a riflettere: “Perché mi trovo ad allenare mio figlio? È realmente una casualità oppure nei miei pensieri c’è stato il desiderio di avere la certezza che sia seguito nella maniera adeguata, di avere sempre il controllo della situazione in casa e fuori o semplicemente la convinzione di non ritenere valida nessuna alternativa possibile (nessuno potrà allenarlo bene quanto me)?”.
So che può capitare e che sia una scelta consapevole o meno ritengo importante fare alcuni passi fondamentali.
Il primo passo è riflettere sulla necessità della scelta: è davvero così inevitabile? Una volta deciso di andare avanti è importante avere la capacità di guardarsi dentro e capire a quali di queste inevitabili categorie di allenatore-papà si appartiene:
- Evitante: per evitare di essere criticati di volere favorire il proprio figlio e di vederlo etichettare come raccomandato il padre reagisce trattandolo peggio degli altri: la colpa sarà spesso la sua, riceverà meno incoraggiamenti (magari poi lo consolo a casa) e meno attenzioni.
- Esigente: rischiare di chiedere al proprio figlio molto di più di quello che si richiede agli altri giovani calciatori. Il padre non è mai soddisfatto del proprio figlio, perché è suo padre e può permettersi di esserlo.
- Buonista: avere un comportamento lassista nei confronti di quei comportamenti del figlio che invece andrebbero sanzionati e limitati.
Ogni allenatore-papà difficilmente potrà raggiungere la giusta posizione all’interno del suo duplice ruolo, ma dovrà tendere il più possibile alla situazione ideale in cui il proprio figlio è un componente della squadra come tutti gli altri, avrà qualità da valorizzare, difetti da correggere e tante cose da imparare come i suoi compagni. In lui potranno essere visibili potenzialità da esprimere ma anche limiti da superare oppure inevitabilmente da accettare.
Infine lascio, a tutti i papà in cerca del Campione, che non si chiedono se il reale desiderio del proprio figlio sia realmente quello di stare su un campo di calcio, l’invito a riflettere su un brano della ormai famosissima biografia di Andre Agassi:
“Ho sette anni e sto parlando da solo perché ho paura e perché sono l’unico che mi sta a sentire. Sussurro sottovoce: Lascia perdere, Andre, arrenditi. Posa la racchetta ed esci immediatamente da questo campo. Non sarebbe magnifico, Andre? Semplicemente lasciar perdere? Non giocare a tennis mai più? Ma non posso. Non solo mio padre mi rincorrerebbe per tutta la casa brandendo la mia racchetta, ma qualcosa nelle mie viscere, un qualche profondo muscolo invisibile me lo impedisce. Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare, continuo a palleggiare tutta la mattina, tutto il pomeriggio, perché non ho scelta”.
(di Daniela Sepio)
0 Risposte a “Alleno mio figlio?”