L’Italia un paese di tiratori

Le storie dello sport sono costruite sulla capacità, la tenacia e la costanza nel tempo degli atleti.

Il tiro al piattello e il tiro a segno sono a questo riguardo un esempio di eccellenza italiana che unisce le aziende produttrici degli strumenti di questi sport all’abilità degli atleti.

Le storie di Giovanni Pellielo e di Niccolò Campriani ne rappresentano i momenti più significativi. Se praticassero sport più glamour come il golf, le moto o il tennis sarebbero ogni giorno sulle pagine dei giornali. Praticano invece gli sport di tiro a, sport cosiddetti minori, che raggiunge le cronache solo nei giorni delle Olimpiadi. Pellielo, detto Johnny, quarantasei anni, soprannominato il tiratore di Dio per la sua fede, anche questa estrema così come lo è la sua vita di atleta, è l’atleta più forte della storia di questo sport. Ha vinto quattro volte il campionato del mondo e quattro medaglie in altrettante Olimpiadi. Ci si dovrebbe rivolgere a lui per sapere e capire come sia possibile che dopo così tanti anni di attività, sia rimasta intatta la volontà d’impegnarsi per continuare a livelli mondiali assoluti. Negli ultimi quattro anni si è classificato primo, terzo e secondo ai campionati del mondo e ora ha aggiunto ai suoi successi la medaglia d’argento di Rio. La sua motivazione è basata sulla continua voglia di ricercare la perfezione, nella consapevolezza che non potrà mai essere raggiunta. Infatti, è capace di mettere spessori anche solo di un millimetro nel calcio del fucile per sperimentare differenze che quasi nessuno sarebbe in grado di percepire. Vuole dire essere tutt’uno con il proprio strumento sportivo, per raggiungere quella confidenza che gli consente di esprimersi a livelli assoluti da più di venti anni.

Niccolò Campriani, alle Olimpiadi ha vinto tre ori e un argento ed è stato il primo italiano a vincere nel tiro a segno un campionato del mondo individuale.  Ha scritto un libro «Ricordati di dimenticare la paura», in cui racconta che la misura del suo fallimento alle Olimpiadi di Pechino aveva lo spessore di  3,34 mm, equivalente a due monete da un centesimo sovrapposte: “Dopo cinquantanove colpi perfetti sono fuori dalle Olimpiadi. Tradito dal mio cuore. Eliminato. Tutto è perduto. Per due centesimi”. Da quel momento è iniziata la ricostruzione della propria fiducia, che lo portò a studiare negli USA dove iniziò un programma di sviluppo personale insieme al Prof. Edward Etzel, psicologo e oro a Los Angeles nella carabina.

Anche Pellielo ha raggiunto questi risultati grazie alla sua abilità nel gestire le tensioni agonistiche che vive in queste grandi competizioni. “Sono terrorizzato prima d’iniziare” è una sua frase ricorrente ed è in questi momenti, tutt’altro che piacevoli, che nasce dentro di lui il modo per affrontare queste emozioni, che porterebbero la maggior parte degli atleti alla distruzione, mentre sono per lui la base su cui costruire la fiducia di potercela fare anche per questa volta.

Analogo approccio va riservato alle atlete del tiro. A Rio Diana Bacosi e Chiara Cainero si sono sfidate per l’oro e l’argento nella specialità dello skeet. Risultato eccezionale: “In finale c’era tutto l’accumulo di tensione e i sacrifici fatti fino ad adesso. Io e Chiara siamo amiche al di fuori anche del tiro. Ci rispettiamo moltissimo e ci vogliamo bene. Siamo due mamme, due mogli, due donne, due figlie sul podio. Cerchiamo di ricoprire tutti i ruoli al meglio. Non è la prima finale in cui affronto con Chiara. È stato molto difficile”. Per una vittoria speciale non poteva che esserci una dedica particolare. La mia dedica va a mio figlio Mattia. Non è facile lasciare il proprio figlio a casa. Adesso torno con un oro e vorrò stare con la mia famiglia e abbracciare mio figlio per condividere tempo con lui fino a quando non riprenderà la scuola”. Due storie diverse da quelle di Pellielo e Campriani, che dimostrano come sia possibile svolgere più ruoli così impegnativi, e credo su tutti quello di atleta e madre, e stare al vertice dello sport. C’insegnano che c’è un momento per tutto e che quando la motivazione e la dedizione per lo sport si alimentano con la stabilità del proprio ambiente familiare e la fiducia nell’eccellenza del programma di allenamento e del commissario tecnico (in questo caso rappresentato da Andrea Benelli un altro olimpionico dello skeet) si può lavorare per raggiungere risultati di livello assoluto.

Il tiro è anche uno sport per giovani. Già lo sapevamo dopo i successi di Jessica Rossi vincitrice a 17 anni del campionato del mondo  di fossa olimpica e a 20 anni dell’oro a Londra. Chi invece ha vinto l’oro a Rio è Gabriele Rossetti, 21 anni, nello skeet. E’ stato un campione annunciato, predestinato nel tiro a volo, che ha cominciato a praticare sul campo del papà all’età di 7 anni. Già perché suo padre Bruno Rossetti, oggi avversario perché commissario tecnico della Francia è ovviamente il suo principale tifoso: “Cerco sempre di fare al meglio il mio lavoro, ma è strano lavorare per far perdere tuo figlio. E la verità è che il mio cuore batterà sempre dalla sua parte, io non potrei mai gareggiare contro di lui”. Infatti, a Rio Gabriele ha eliminato proprio i due francesi allenati dal padre, Delaunay e Terras, e alla fine i due si abbracciano in modo veramente commovente.

Il tiro a volo racconta anche un’altra storia, tipicamente italiana, quella di un atleta che a Rio è riuscito a fare la gara della vita, nonostante sino a quel momento non avesse avuto una carriera sportiva veramente vincente. Marco Innocenti, 38 anni, a 5 anni prese per la prima volta in mano un fucile,  mai immaginando che avrebbe vissuto una giornata così fantastica. Invece dopo avere passato una vita tra le armi nell’azienda di famiglia, unico atleta del tiro a non essere arruolato nei gruppi sportivi militari, a Rio vince l’argento nel double trap. Non continuerà però la carriera sportiva e continuerà solo per diletto: “Ho dimostrato che con passione e tenacia si può arrivare molto in alto anche non facendo parte dei gruppi sportivi militari. Però ho problemi di tempo, visto che per vivere devo anche lavorare, e di approvvigionamento (cartucce). Quindi lascio e voglio stare più tempo con le mie due bambine”.

Umiltà e coraggio sono le due più grandi qualità di questi atleti. L’umiltà di sapere che l’alto livello richiede grandi sacrifici e un’applicazione costante e intensa e, inoltre, che negli sport di precisione l’errore può avvenire in qualsiasi momento e non è recuperabile, a meno che l’avversario non commetta lui stesso un errore. Quindi bisogna sapere reagirvi rapidamente per rifocalizzarsi sul colpo seguente. Coraggio, poiché ogni gara viene comunque affrontata con tensione e convinzione di avere fatto tutto il necessario e che nonostante lo stress agonistico e le momentanee insicurezze si è convinti di essere pronti per gestire quello che succederà in gara.

Queste donne e uomini meritano il nostro ringraziamento, perché ci dimostrano che l’importante non è essere gazzella o leone, ma serve muoversi, impegnarsi, avere obiettivi e volere raggiungerli. Abbiamo bisogno della loro motivazione per esercitare il nostro ottimismo verso il futuro.

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