Sport, sport, sport. In Italia se ne parla tanto, ma i numeri raccontano una realtà diversa: appena il 27% della popolazione maggiorenne pratica sport e uno su due ha oltre 45 anni. Ne abbiamo parlato con Alberto Cei, psicologo dello Sport e docente alle Università di Tor Vergata e San Raffaele.
Intervista di Alessandro Bartolini per l’ufficio stampa delle Olimpiadi e Paralimpiadi della Città Metropolitana di Firenze diffusa con newsletter della UISP Firenze
Quali sono le ragioni di questo allontanamento dallo sport in età molto giovane?
“Il picco di attività è a 12 anni per i maschi e 11 per le ragazze, da lì comincia la discesa. I motivi sono molteplici: anzitutto l’organizzazione della scuola non prevede in maniera consistente l’attività motoria, poi c’è una notevole carenza di impianti che certo non aiuta. Crescendo aumenta poi l’impegno con lo studio e di conseguenza anche le difficoltà, perché non sempre i docenti riconoscono il valore di queste attività, non c’è un’adeguata attenzione. Infine c’è un altro aspetto legato alle esigenze familiari: sono sempre i genitori o comunque i parenti a dover accompagnare i più giovani a fare sport, non tutti hanno questa possibilità ed è un ulteriore limite”.
La pandemia ha dato un ulteriore colpo: secondo i dati Istat, ancora una volta i numeri peggiori si registrano nelle fasce giovanili, con una diminuzione in doppia cifra: da 66 al 48,9% per i bambini delle elementari, dal 68 al 54,8% per quelli delle medie.
“Indubbiamente la pandemia ha pesato molto, a quell’età è innaturale restare chiusi dentro casa. Invece sono stati sollecitati a condurre una vita sedentaria e alla fine l’uso degli strumenti tecnologici, a partire dagli smartphone, è diventato un’alternativa alla socializzazione in presenza, visto che permettono comunque di mantenere relazioni. Chi già era poco motivato a fare sport o lo faceva saltuariamente, dovendo restare chiuso in appartamento, si è abituato e ha mollato. Certo non è una situazione omogenea, magari ha sofferto di più chi vive nelle grandi città rispetto a chi abita in piccoli centri dove è più facile stare a contatto con la natura”.
Parlavamo prima del rapporto un po’ complicato tra sport e scuola. Quanto c’è da lavorare per rafforzare questa sinergia?
“Purtroppo la scuola non considera l’attività sportiva come un elemento centrale nella formazione di ragazze e ragazzi; c’è anche una sottovalutazione del ruolo degli insegnanti specializzati in questo ambito. È significativo che molte scuole non abbiano la palestra oppure che questi impianti siano inagibili per anni. Abbiamo visto, per esempio, cos’è accaduto durante la pandemia: le palestre sono spesso diventate il deposito per i banchi a rotelle inutilizzati o per accatastarvi quelli vecchi. È un problema di mentalità che viene da lontano, negli ultimi 30-40 anni non è cambiato granché. Ci sono stati e ci sono dei progetti, ma un conto è raggiungere 10mila o 20mila studenti, altro è coinvolgere tutti e far diventare lo sport un attività decisiva per lo sviluppo dei giovani”.
In quest’ottica quanto possono “servire” manifestazioni come le Olimpiadi e Paralimpiadi della Città Metropolitana?
“Ogni manifestazione sportiva è sicuramente la benvenuta, a maggior ragione se come in questo caso è un intero territorio, una delle province più grandi e importanti d’Italia, che si muove nella stessa direzione. È un segnale forte per poter cambiare la cultura ed è fondamentale che questi non restino eventi isolati, ma siano da stimolo per altri così da innescare un circolo virtuoso”.
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