Come cambiare atteggiamento durante una partita di tennis

La nostra vita quotidiana è piena di episodi in cui le nostre prestazioni sono influenzate dagli stati d’animo e dalle emozioni che proviamo in quei momenti. Non sempre l’umore con cui si affrontano prove impegnative è di aiuto nel favorire prestazioni soddisfacenti, talvolta ci si può sentire troppo arrabbiati per stare ad ascoltare qualcuno le cui idee potrebbero essere utili per noi, oppure si è pessimisti sulla possibilità di essere in grado di fare bene o ancora si ritiene di non essere capaci per cui si affronta un determinato compito in modo poco convinto. Quante volte si pensa: “Se non mi fossi sentito in quel modo, avrei fatto sicuramente meglio.” Sono pensieri comuni che mettono in evidenza il ruolo centrale delle emozioni. 

Lo stesso avviene sul campo di gioco durante una partita di tennis e … racchette sbattute per terra, darsi addosso, pensare che non si giocherà mai più una partita, arrabbiature contro l’avversario che perde tempo o contro il destino che fa andare fuori solo le nostre risposte sono modi di reagire in cui tutti siamo inciampati.

Un modo utile per migliorare la propria consapevolezza in relazione all’influenza delle emozioni nel gioco del tennis consiste nel ripensare:

  1. alle partite migliori che si è giocato, focalizzandosi sulle azioni effettuate per renderle possibili e sulle emozioni provate. In tal modo si diventa  più consapevoli del proprio modo di pensare e di sentire e di come questo influenza il nostro modo di giocare.
  2. ai primi game della partita, identificando quali sono stati gli stati d’animo e i pensieri prevalenti. Sono contento oppure vorrei essere diverso? Quali sono le emozioni e i pensieri che potrebbero migliorare l’efficacia del mio gioco all’inizio della partita?

Sono, invece, da evitare le spiegazioni pessimiste che portano a non cambiare e a accettare il proprio gioco in modo fatalistico, dando per scontato un pensiero del tipo: “Io ho sempre fatto questi errori e non sono mai riuscito a cambiare” oppure “Sono sempre stato un tipo nervoso, che si arrabbia facilmente appena comincia a sbagliare e non posso mica cambiare adesso dopo una vita passata a giocare così.”

Potrebbe anche essere vero che si è provato a cambiare senza avere ottenuto un risultato soddisfacente, convincendosi di conseguenza che non sia possibile migliorarsi. Nella quasi totalità dei casi queste prove di cambiamento sono state però condotte in modo sbagliato, senza seguire un sistema di miglioramento. Spesso le persone provano a cambiare un comportamento (ad esempio: arrabbiarsi dopo un errore) dicendo a se stesse di non farlo (“Non ti devi arrabbiare”). Di solito l’effetto di questa azione è di continuare a sentirsi arrabbiati. Tutti hanno sentito dire dal maestro di tennis che per calmarsi e recuperare si deve  fare un bel respiro profondo; si segue questo consiglio ma spesso non funziona e, quindi, ci si convince che respirare profondamente non serve a nulla.

Dove hanno sbagliato questi tennisti, che pure hanno provato a reagire alle difficoltà?

Il primo caso evidenzia che non si cambia semplicemente dicendosi di “non fare una cosa”, altrimenti i nostri cambiamenti si attuerebbero a colpi di frasi: sei arrabbiato, basta dire “non essere arrabbiato”, sei agitato dì che non vuoi essere agitato, sei distratto dì che non vuoi esserlo e così via. Dirsi delle frasi non serve a nulla se non si incide nello stesso tempo anche sulle emozioni.

Il secondo caso è molto tipico nello sport, perché anche molti atleti non sanno eseguire correttamente un respiro profondo, e quando provano a farlo inspirano poca aria, magari la prendono a scatti e la mandano fuori troppo velocemente, in questo modo il loro respiro somiglia di più a un sospiro o a uno sbuffo. Per questa ragione non risulta efficace. Al contrario, tutti possono imparare a fare un respiro profondo, però prima bisogna esercitarsi a farlo in modo corretto, la sua efficacia va sperimentata in allenamento e solo in seguito andrà eseguito in partita; a quel punto non c’è nessun dubbio che sarà utile a ridurre la tensione emotiva. Per l’allenamento di queste competenze bisogna consultare uno psicologo dello sport.

Come gestire lo stress agonistico

Le vicende dello sport di alto livello mettono in evidenza la necessità di gestire lo stress. Lo stress di Massimiliano Allegri, la stanchezza mentale dell’Atalanta, lo stress dei tanti che devono ancora qualificarsi per le Olimpiadi, delle squadre che nelle diverse discipline stanno giocando i playoff per citare alcune situazioni.

Lo stress per stagioni difficili, lunghe e in ambienti molto competitivi generano ogni sorta di difficoltà psicologiche che gli atleti devono imparare a superare per continuare con successo il loro percorso. Potrebbe sembrare banale sottolineare l’importanza del recupero psicologico, ovviamente non lo è ma questa pratica non è così diffusa fra gli atleti/e come invece dovrebbe essere.

Direi che rilassamento e visualizzazione dovrebbero essere due tecniche che fanno parte della vita quotidiana di un atleta. Va ricordato che rilassarsi determina:

  • migliore recupero fisico
  • migliore sonno
  • pensieri più liberi e meno stressanti
  • maggiore capacità di mettere distanza con gli eventi quotidiani
  • capacità di recuperare in pochi minuti dalle situazioni di stress
L’immaginazione invece determina:
  • abilità a immedesimarsi nelle situazioni competitive
  • migliore capacità di focalizzazione sul presente
  • capacità di stoppare i pensieri che ostacolano la prestazione
  • migliore contatto e consapevolezza con i propri stati d’animo
  • capacità di passare da pensieri/emozioni che ostacolano e pensieri che favoriscono la prestazione
In sostanza chiunque viva situazioni competitive importanti e per se stesso significative dovrebbe allenarsi psicologicamente in questo modo, per evitare il rischio di subire lo stress senza avere acquisito competenze per ridurlo. Purtroppo ancora molti atleti/e non capiscono il valore di questo tipo di allenamento, questo avviene spesso per superficialità, chiusura mentale, paura di restare in contatto con loro stessi, per superficialità e presunzione di sapere già da soli come fare.

L’ira di Max Allegri

Momenti negativi di ira possono capitare nella vita di un allenatore ma devono essere gestiti così da non travolgere il proprio autocontrollo. Questo mi sembra che sia ciò che non ha fatto Massimiliano Allegri durante gli ultimi minuti della finale di Coppa Italia e durante la premiazione.

La perdita dell’autocontrollo è un fatto grave per ogni persona. Comporta avere quasi annullato ogni forma di controllo che di solito si ha nelle relazioni interpersonali e si agisce solo sulla pressione emotiva, che blocca nella mente ogni pensiero logico e razionale. Essere entusiasti o essere rabbiosi sono i due estremi di uno stesso continuum, uno positivo e l’altro negativo, rappresentano due modi diversi d’investire l’energia fisica e mentale a disposizione.

In ambedue i casi le emozioni hanno preso il sopravvento sul pensiero, che in questi momenti amplifica con le parole quanto gli stati d’animo rappresentano in quei momenti. Si può agire in questo modo durante la partita per portare l’attenzione su se stessi, per togliere in questo modo pressione alla propria squadra e per intimorire l’arbitro.

Allegri è un allenatore vincente e, quindi, stupisce ancora di più che si lasci andare a queste esplosioni di rabbia. Quali che siano state le mancanze che ha rilevato nella dirigenza del club, in ogni caso ha raggiunto gli obiettivi che gli erano stati dati. Questa sarebbe stata la risposta da contrapporre alle critiche e non la violenza verbale e i gesti non controllati.

Comnnque la storia non può tornare indietro e vedremo nei prossimi giorni quale tipo di azioni da Allegri e da chi è stato l’oggetto delle sue reazioni.

 

Sport e pace

La curva della solitudine

La solitudine nell’età adulta segue un modello a forma di U: è più alta nei giovani e negli anziani, e più bassa durante l’età adulta media, riporta uno studio recente della Northwestern Medicine che ha esaminato nove studi longitudinali provenienti da tutto il mondo.

Lo studio ha identificato anche diversi fattori di rischio per un aumento della solitudine lungo tutto il corso della vita, tra cui l’isolamento sociale, il sesso, l’istruzione e l’impairment fisico.

“Quello che è sorprendente è quanto costante sia l’aumento della solitudine nell’età adulta più avanzata”, ha detto l’autrice corrispondente Eileen Graham, professore associato di scienze mediche sociali presso la Northwestern University Feinberg School of Medicine. “C’è un’abbondanza di prove che la solitudine sia correlata a una salute peggiore, quindi volevamo capire meglio chi è solo e perché le persone stanno diventando più sole man mano che invecchiano oltre la mezza età, così da poter sperabilmente trovare modi per mitigarla”.

La mancanza di connessione può aumentare il rischio di morte prematura a livelli comparabili al fumo quotidiano, secondo l’ufficio del chirurgo generale degli Stati Uniti, che un anno fa ha chiesto azioni per affrontare l’epidemia di solitudine in America. Graham ha detto che i suoi risultati sottolineano la necessità di interventi mirati per ridurre le disparità sociali durante tutta l’età adulta al fine di ridurre i livelli di solitudine, specialmente tra gli anziani.

Forse un giorno i medici di base potrebbero valutare i livelli di solitudine durante le visite regolari per il benessere al fine di identificare coloro che potrebbero essere più a rischio, ha detto Graham.

Impegnarsi per sviluppare se stessi/e

Non si può diventare un adulto responsabile e autonomo o un atleta vincente se si deve sempre obbedire a qualcuno, fosse anche il capo o l’allenatore migliore.

Chi vive in questo modo diventa dipendente dalle scelte di altri, che gli dicono come fare. E’ una gabbia nella quale ci si è messi e anche se comoda perchè si può sempre attribuire agli altri i propri errori, limita lo sviluppo personale.

Bisogna impegnarsi, studiare, lavorare o gareggiare, per se stessi/e e non per soddisfare le ambizioni degli altri. Bisogna imparare a chiedere scusa solo quando non ci s’impegna al 100% e non per gli errori che si commettono.

Bisogna imparare che l’ansia è una dimostrazione dell’importanza che diamo a quello che stiamo per fare, quindi usiamo questa energia per fare del nostro meglio e non per spaventarci. Usiamo il respiro per ridurre le tensioni e recuperare, spostiamo l’energia nell’incoraggiarci sempre, mettiamoci un’idea in testa e andiamo.

Non sempre otterremo il risultato migliore, poiché tanti fattori possono interferire lungo questo percorso ma avremo sempre agito al nostro meglio, che è l’unica cosa che conta.

Qualsiasi atleta vorrebbe vincere ogni gara,  ma non è possibile. Dobbiamo essere pazienti con noi stessi e darci il tempo di imparare dagli errori e dalle sconfitte, perchè sono loro a indicarci la strada da seguire per migliorare.

Imparare dagli errori: un cambiamento molto impegnativo

Volere imparare dagli errori è un desiderio positivo e necessario ma è anche veramente molto difficile da praticare. Un primo ostacolo è rappresentato dal mantenere questa motivazione in modo continuo durante la stagione agonistica.

Un secondo aspetto riguarda il mantenerla anche quando l’atleta si sente preparato e in forma e pretenderebbe di performare al meglio in virtù di questa condizione. Dimenticando che l’ambiente in cui svolge la gara, l’avversario e l’importanza delle competizioni sono altri fattori che influenzano come si gareggerà.

Un terzo aspetto, strettamente collegato a quello precedente, sta nella presunzione di pensare che giacché si è in forma sarà scontato che si commetteranno pochi errori e tutto andrà bene. Meravigliandosi se ciò non accade. Pensare di vincere anziché pensare a come fare per giocare al meglio è considerato essere un killer della prestazione.

Un quarto aspetto si riferisce alla componente emotiva suscitata dall’errore. L’atleta conosce le ragioni dell’errore e saprebbe come cambiare ma si lascia dominare dalla frustrazione dell’errore e da emozioni di rabbia o delusione o sensi colpa anziché incoraggiarsi. In questo modo, anche se pensa in modo corretto, lo stato d’animo negativo verso di sé gli impedisce di mettere in pratica in modo efficace la sua scelta.

L’allenamento mentale dovrà rivolgersi a insegnare al giovane a uscire da questi stati mentali negativi, stimolare forme costanti d’incoraggiamento e sviluppare un dialogo con se stesso positivo.

 

 

Ricordando il Grande Torino

Paul Auster, 1947- 2024

Chi impara dagli errori ha successo

Una delle ragioni per cui gli atleti falliscono nell’impegnarsi al meglio a prescindere dal risultato è che non s’impegnano a esercitarsi mentalmente. Vuol dire che oltre agli esercizi che li mettono nella giusta condizione fisica non svolgono esercizi che possono aiutarli mentalmente. Per molti la prestazione mentale deve essere null’altro che la continuazione di quella, senza dedicarle alcuna attenzione.

Purtroppo, troppo spesso questa convinzione è molto radicata e gli atleti di fronte ai loro errori anziché reagire con più attenzione e decisione si sentono in colpa e si abbattono. Questo nell’era dei social è molto frequente e bisogna quindi allenare questi atleti a essere più consapevoli delle ragioni dei loro errori, che sono utilizzabili come opportunità per fare meglio. Questo non è facile ma l’atleta dovrebbe servirsi delle tecniche psicologiche per superare questi momenti difficili.

Questo tipo d’interpretazione differenzia gli atleti di successo dagli altri, chi non accetta e non impara dagli errori sarà costretto a non sviluppare completamente le sue risorse.