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Quando fare progetti per il nuovo anno è inutile

Ogni inizio anno ci poniamo obiettivi per i successivi mesi, ne parliamo con gli amici, c’è chi vuole dimagrire, chi fare sport, dedicare più tempo alle persone che ama e così via. Di solito dopo pochi giorni vengono abbandonati perchè ci si sente dominati dalle necessità della vita quotidiana. Per cui si giunge alla spiegazione del classico “vorrei ma non posso”. Non sono io che non voglio era vita che me lo impedisce.

Suggerisco, quindi, a tutti noi di evitare di giocare al cambiamento se tanto sappiamo che poi facilmente abbandoneremo questi buoni propositi.  In tal senso pensare in positivo, e quindi credere che ce la faremo a soddisfare i nostri obiettivi, è fuorviante. Il pensiero positivo è velleitario se non si accompagna alla consapevolezza che sarà difficile raggiungere quanto ci proponiamo e se non siamo disposti a fare dei sacrifici.

Vuol dire impegnarsi a prescindere dai risultati. Bisogna essere disposti a impegnarsi sapendo che potremmo fallire. Dobbiamo pensare che cambiare abitudini richiede tempo ed è difficile, per la ragione che dobbiamo iniziare a pensare e ad agire in modo diverso dal solito nello stesso momento in cui saremmo portati a comportarci nel modo abituale.

Se vogliamo avere successo partiamo da obiettivi a breve termine, in cui spendere un tempo limitato ma quotidiano, ragioniamo in termini di: “Cosa mi va di fare per me oggi e che è diverso da ciò che faccio abitualmente”. Se diamo una risposta affermativa a questa richiesta ci stiamo muovendo sulla strada giusta, anche solo un minuto passato diversamente ci darà un segnale positivo, senza fretta impariamo a raccoglierli.

Le ragioni del crollo del calcio italiano spiegate con i numeri

Un articolo apparso su Lo Slalom di Angelo Carotenuto e ripreso oggi da Repubblica.it ci ricorda chi sono i giocatori comprati all’estero con la scusa di fare quadrare i bilanci delle società di calcio, molti di essi non sono certamente campioni e tantomeno hanno fornito contributi significativi alle squadre italiane in cui hanno giocato.

Ricordare i numeri di questa vicenda come fa Carotenuto, per noi che non siamo addentro alle politiche del calcio, è veramente avvilente:

“Le cifre della serie A in corso raccontano che fra i 508 giocatori andati in campo, ci sono 78 stranieri utilizzati finora per meno di 200 minuti, cinque di media a partita. Altri 28 sono rimasti sotto i 340 minuti, cioè la soglia dello spezzone minimo da 20 minuti a partita. In tutto fanno 106 stranieri fantasma, arrivati e dimenticati, pagati e impalpabili. Fanno il 20 per cento del totale del campionato. Questo stop riguarderà soprattutto loro, i fantasmi della serie A. Più visibili nei bilanci che in campo”.

Gianni Cerasuolo su succedeoggi  scrive a ulteriore conferma di questi dati:

“Nella stagione 2012-2013 in serie A giocarono 368 calciatori stranieri su 705 tesserati, il 52,19 %: 1 giocatore su 2 veniva da un altro paese. L’Inter ne aveva 33 su 49, la Fiorentina e la Lazio 23 su 34. Alzi la mano chi si ricorda di Facundo Parra (Atalanta), Uros Radakovic (Bologna), Erick Cabalceta (Catania), Allan Blaze (Genoa), Vykintas Slivka (Juve), Morten  Knudsen (Inter), Pavol Bajza (Parma). Un campionato dopo, 2013-2014, gli stranieri arrivarono a 522 su una base più larga di ben 1161 tesserati: 44,96 %. Nella scorsa stagione è sceso il numero dei tesserati (555), ma gli stranieri sono stati 304, il 54,7 %. Questi numeri uniti ad un’analisi molto concreta sono contenuti in un libro edito da “ultra sport” e scritto a quattro mani da due giornalisti, Mirko Nuzzolo ed Enrico Turcato, che ha per titolo: Stranieri. Che vale la pena sfogliare anche per le tabelle, molto esplicative, che contiene.

Non credo ci sia bisogno di aggiungere che questa strategia d’importare giocatori stranieri rappresenti la causa principale della decadenza del calcio italiano.

Cervello ed esercizio fisico

I dati che emergono dalle ricerche delle scienze motorie o come preferisco dire della scienza del movimento dimostrano la reciproca influenza tra l’esercizio fisico e le strutture e le funzioni del cervello. Sono noti i legami tra sedentarietà e salute e l’influenza positiva tra movimento e benessere. A questo riguardo le ricerche dimostrano come l’esercizio fisico nelle sue varie declinazioni e in funzione della sua intensità, svolgimento nel tempo, durata delle singole sedute e loro frequenza influisce sul sistema nervoso centrale, su quello immunitario e cardiocircolatorio e sulle altre funzioni vitali. Di questi sistemi fanno parte anche i processi cognitivi (memoria, attenzione e percezione), quelli affettivi e più in generale quelli che permettono la pianificazione,  l’organizzazione e la valutazione delle nostre azioni quotidiane.

Appare evidente che parlare ancora di motorio e psicomotorio come di processi diversi non ha più senso mentre dobbiamo sapere che vi sono sistemi tra loro interagenti che partecipano a determinare quello che siamo e facciamo. Quindi ogni movimento e ogni nostra azione è espressione dell’interazione di questi temi che in modo meraviglioso ci forniscono la possibilità di soddisfare i nostri bisogni e obiettivi quotidiani.

Negli sport abbiamo sempre parlato di sport closed (chiusi) e di sport open (aperti) per distinguere fra discipline con movimenti ciclici e ripetitivi (ad esempio: corsa di breve durata: 100 e 200m, salti e lanci, ciclismo su pista) e discipline a prevalenza tattica o situazionali in cui le condizioni di gara sono in continuo cambiamento (ad esempio sport di squadra, tennis, ciclismo su strada). Detto in questo modo, sembrerebbe che vi siano sport in cui il pensiero sia più importante rispetto ad altri. La questione è però molto più complessa. Infatti, anche gli sport di squadra hanno aspetti ripetitivi – i fondamentali di questi sport, abilità chiuse come le punizioni e i rigori – così come le prestazioni negli sport closed sono influenzate ad esempio dall’atteggiamento pregare degli atleti e dalla loro capacità di gestire le aspettative e la pressione agonistica.

Le classificazioni sono utili per identificare le differenze più significative fra gli sport ma nel contempo non devono diventare delle scatole rigide, perchè questo approccio non permette di mantenere viva la complessità e il valore della prestazione umana.

Sapere trasformare una passione nel proprio lavoro

La dimensione personale che ammiro di più negli umani è quella di sapere trasformare una passione nel proprio lavoro.

Atleti e artisti sono fra quelli a cui si riconosce un legame diretto tra la loro attività professionale e la passione per lo sport e per l’arte. Questo può comunque avvenire in qualsiasi dell’agire umano. Ci vogliono coraggio e tenacia nel voler perseguire questo progetto personale, poichè nulla è garantito quando si decide d’intraprendere questa strada. E’ la passione che sostiene questo modo di darsi una prospettiva senza anche che non si ha la certezza di raggiungere un risultato che soddisfi quest esigenza, che inoltre può essere raggiunta ai livelli del massimo successo  o di risultato magari meno evidente ma ugualmente soddisfacente per chi lo raggiunge.

E’ un legame difficile da mantenere quello che unisce passione e lavoro e tante sono le domande e i dubbi che le persone si pongono lungo questa strada. E’ un legame basato sul pensare in grande, soddisfare il proprio sogno, mentre bisogna agire quotidianamente nel proprio piccolo ambiente. Bisogna andare avanti a testa alta, orgogliosi delle scelte fatte, ma anche stare con i piedi per terra, assaporare la fatica e gli insuccessi che accompagnano questo viaggio verso l’autorealizzazione.

E’ un gioco in cui si deve imparare in fretta ad accettare gli errori e le sconfitte, sapendo che meglio ci si equipaggia, più ci si rialzerà facilmente dalle sconfitte.

In un mondo che chiede sicurezza e garanzia di successo questo approccio rappresenta esattamente il contrario dicendoti: “Ti troverai in situazioni difficili, sbaglierai, avrai paura di non migliorare. Bene! Questi saranno i momenti in cui metterai alla prova la tua passione. Se continuerai a volerimparare nonostante gli errori vorrà che sei veramente appassionato, se invece lascerai perdere vuol dire che non hai abbastanza voglia di trovarti in difficoltà per volerne uscire”.

Continua ciò che hai cominciato

Sano egoismo contro altruismo patologico

Kaufman SB and Jauk E (2020). Healthy Selfishness and Pathological Altruism: Measuring Two Paradoxical Forms of Selfishness. Front. Psychol. 11:1006.

Nel suo saggio del 1939 intitolato “Egoismo e Amore verso Sé Stessi”, Erich Fromm iniziò dichiarando che “La cultura moderna è pervasa da un tabù sull’egoismo. Insegna che essere egoisti è peccaminoso e che amare gli altri è virtuoso.” Nel suo saggio, Fromm sostiene che questo tabù culturale ha avuto l’infausta conseguenza di far sentire le persone in colpa nel mostrare un sano amore verso se stesse, che egli definisce come l’affermazione appassionata e il rispetto per la propria felicità, crescita e libertà.

Fromm argomenta che la forma di egoismo che la società condanna – un interesse esclusivamente verso se stessi e l’incapacità di riconoscere  con piacere e rispetto la dignità e l’integrità degli altri – è in realtà l’opposto dell’amore verso sé stessi. Per Fromm, l’amore è un atteggiamento indifferente se sia diretto verso l’esterno o verso l’interno.

Al contrario, Fromm sosteneva che l’egoismo è una sorta di avidità: “Come tutte le avidità, contiene un’instabilità, a causa della quale non c’è mai una vera soddisfazione. L’avidità è un pozzo senza fondo che esaurisce la persona in un incessante sforzo di soddisfare il bisogno senza mai raggiungere la soddisfazione” (Fromm, 1939).

Ispirato dal saggio di Fromm, Maslow (1943/1996) sosteneva la necessità di distinguere chiaramente l’”egoismo sano” dall’egoismo malsano, così come l’importanza di distinguere le motivazioni sane e non sane dietro il comportamento apparentemente egoista di una persona.

Definendo l’egoismo come qualsiasi comportamento che porta piacere o beneficio all’individuo, Maslow sosteneva che: “Per quanto ci riguarda, non dobbiamo avere dei pregiudizi. Non dobbiamo assumere che il comportamento egoista o altruista sia né buono né cattivo fino a quando non determiniamo effettivamente dove risiede la verità. Potrebbe essere che a volte il comportamento egoista sia buono e altre volte sia cattivo. Potrebbe anche essere che il comportamento altruista a volte sia buono e altre volte cattivo”. Maslow aggiunge che “molto di ciò che sembra essere un comportamento altruista può derivare da forze psicopatologiche e che ha origine da motivazioni egoistiche” (p. 110).

Sottolineando la necessità di un nuovo vocabolario che incorpori l’idea di egoismo sano, Maslow ha osservato che nel processo psicoterapeutico a volte è necessario insegnare alle persone, in certi momenti, ad agire in modo “positivamente egoista”, a avere un sano rispetto per se stessi che proviene dall’abbondanza e dalla gratificazione dei bisogni, “che deriva da ricchezze interiori piuttosto che da povertà interiore” (p. 110).

Una recente meta-analisi della letteratura sul prendersi cura del benessere degli altri supporta queste prime idee. Le et al. (2018) hanno scoperto che le persone che si prendono cura del benessere degli altri e dei propri partner nelle relazioni strette, sperimentano un maggiore benessere relazionale. Tuttavia, il benessere personale è massimizzato solo nella misura in cui le persone non trascurano se stesse nel loro impegno verso la cura degli altri. Pertanto, mentre i benefici per la salute e le relazioni derivanti dalla promozione del benessere degli altri sono ben documentati (Crocker e Canevello, 2008, 2018), il ruolo dell’egoismo sano nel contribuire al benessere e alle relazioni potrebbe essere stato trascurato nella letteratura.

Un presentimento d’amore

Sei pronto a seguire la strada per essere autosufficiente?

Gli attacchi di panico aumentano anche fra gli atleti

Gli psicoterapeuti dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza, presenti  da anni negli Istituti scolastici di ogni ordine e grado sul territorio nazionale, hanno accolto numerose richieste di aiuto all’interno delle attività svolte in ambito scolastico e online. Nei colloqui svolti all’interno dei progetti di sportello di ascolto psicologico, è emerso che circa 1 adolescente su 4 ha sperimentato nell’ultimo anno vissuti depressivicirca 1 su 5 ha manifestato problematiche legate all’ansia, in particolare disturbi di panico e fobia sociale, e il 25% ha messo in atto condotte autolesive.

Nella mia esperienza nello sport agonistico ho assistito a un aumento delle crisi d’ansia e degli attacchi di panico fra gli atleti e le atlete adolescenti. Gli attacchi di panico negli atleti possono verificarsi durante le competizioni o negli allenamenti intensi e stressanti. Questi attacchi sono episodi improvvisi di paura intensa o disagio che possono manifestarsi con una serie di sintomi fisici e psicologici. Le caratteristiche degli attacchi di panico possono includere:

  1. Ansia e paura intensa - Gli atleti possono sperimentare una sensazione opprimente di ansia e paura, spesso senza una causa evidente o connessa a una situazione specifica.
  2. Sintomi fisici - Questi possono includere palpitazioni, sudorazione eccessiva, tremori, sensazione di soffocamento o mancanza di respiro, nausea, vertigini o sensazioni di svenimento. Alcuni atleti possono anche avvertire dolori al petto o formicolii alle mani e ai piedi.
  3. Sensazione di perdita di controllo -  Gli attacchi di panico possono far sentire agli atleti di perdere il controllo della situazione o della propria mente, causando un senso di terrore.
  4. Pensieri catastrofici - Durante un attacco di panico, gli atleti possono avere pensieri catastrofici riguardo alla propria salute, prestazione sportiva o alla possibilità di fare brutte figure davanti agli altri.
  5. Isolamento e evitamento - Dopo aver sperimentato attacchi di panico, gli atleti potrebbero evitare situazioni o ambienti che ritengono possano scatenare nuovamente la stessa reazione.

Le cause degli attacchi di panico negli atleti possono essere varie, tra cui:

  • Stress e pressione da performance - Gli atleti possono provare pressioni elevate dovute all’aspettativa di prestazioni eccezionali, il che può generare ansia e paura di fallire durante gli eventi sportivi.
  • Esposizione a infortuni o fallimenti - Le esperienze passate di infortuni gravi o fallimenti sportivi significativi possono generare ansia anticipatoria, portando a un’alta sensibilità emotiva durante l’attività sportiva.
  • Caratteristiche personali - Alcuni atleti possono essere più inclini geneticamente o a causa di esperienze personali a sviluppare attacchi di panico.

Innanzitutto è utile imparare a respirare per rilassarsi e poi essere presenti nel qui ed ora mantenendo la consapevolezza anche durante un attacco di panico che avrò una fine. Questo approccio mentale permette il recupero di una condizione di maggiore calma che al momento era andata perduta. Questo stimola anche un’ulteriore azione che riguarda lo spostamento dell’attenzione da una condizione psicofisiologica negativa, debilitante e percepita come non controllabile a uno stato mentale che permette di distanziarsi dai sintomi fisici e dai pensieri catastrofici. Di conseguenza è importante affrontare gli attacchi di panico negli atleti attraverso strategie di gestione dello stress, consulenza psicologica, tecniche di rilassamento, mindfulness tramite il supporto di psicologi dello sport specializzati.

I problemi del Napoli che nessuno risolve

Continua la crisi sempre più profonda del Napoli che si trova ora a 20 punti dalla testa della classifica. Una spiegazione di questi risultati così negativi rispetto alle aspettative iniziali, può riguardare la pressione generata da questa attesa di ripetere anche quest’anno l’eccezionale stagione portata a termine il campionato passato e di ritrovare facilmente la stessa coesione di squadra anche con un nuovo allenatore.

Questo modo di pensare può avere messo molta pressione al Napoli e avere determinato sfiducia nei calciatori una volta che si sono accorti che i meccanismi della stagione precedente sono sembrati scomparsi.  Quindi questa tendenza a confrontare le prestazioni attuali con quelle della stagione precedente, può avere determinato una percezione di fallimento o una delusione.

A ciò si devono aggiungere le aspettative del pubblico e dei media, che in seguito alla vittoria del campionato, hanno aumentato le loro aspettative nei confronti della squadra. La pressione per ripetere il successo però può diventare così intensa e costante che, se non è confortata da risultati positivi, è causa di sfiducia nella squadra. Inoltre, all’interno della squadra stessa, ci potrebbe essere stato un aumento della pressione. I giocatori potrebbero essersi sentiti obbligati a dimostrare che la vittoria non è stata casuale e che potevano confermarsi come squadra di alto livello.

Va anche tenuto presente che il successo determina una maggiore esposizione mediatica. La squadra diventa più visibile e soggetta a maggiori attenzioni da parte dei media. Questa esposizione può avere aggiunto pressione poiché ogni passo o risultato viene analizzato e discusso pubblicamente.

L’allenatore e lo staff dovrebbero gestire attentamente queste forme di pressione, creando un ambiente che incoraggi la fiducia, riducendo lo stress e aiutando i giocatori a mantenere la mentalità che serve per affrontare le sfide di questa nuova stagione. Può essere che la squadra soffra di problemi tattici ma di sicuro non dimostra di essere una squadra unita nell’affrontare queste difficoltà.