Archivio mensile per settembre, 2024

Alleniamo gli atleti a prendere decisioni

Parlando con gli adolescenti che praticano sport, mi sono accorto che non è scontato che sappiano spiegare cosa fanno in allenamento piuttosto che in gara e quali sono i loro punti di miglioramento e le loro competenze.

Se in qualche questo dato potrebbe essere accettabile per coloro che si allenano anche solo 3 la settimana, a mio avviso non lo è per quagli atleti che si allenano quotidianamente e svolgono un’attività agonistica per loro significativa. Inoltre, lo sviluppo a lungo termine dell’atleta è un percorso che prevede per la maggior parte degli sport, con l’eccezione di quelli a specializzazione precoce, che a partire da 14/15 anni lo scopo dell’allenamento sia d’imparare a gareggiare.

Ma come può essere raggiunto questo scopo per chi non è in grado di spiegare compiutamente quali sono le sue competenze e come intende impegnarsi in gara?

Spesso negli sport di squadra è lo stesso allenatore a guidare la squadra dalla panchina quasi fosse composta da automi e non da giovani con pensieri specifici sul gioco da svolgere. Lo stesso vale in tutti gli sport situazionali e a prevalenza tattica che siano il tennis, il tennis tavolo, la scherma e altri ancora.  Vi sono sport, in cui più che in altri, il prendersi la responsabilità delle proprie decisioni e verificare gli effetti in gara fa parte di un irrinunciabile processo di sviluppo come persona e come atleta. Nessun allenatore dovrebbe ostacolare lo svolgimento di questo processo e tantomeno sostituirsi al processo decisionale degli atleti.

Questo percorso dovrebbe già essere presente in allenamento per poi trovare la sua applicazione migliore in gara. In conclusione, alleniamo gli atleti a prendere decisioni e a viverne le conseguenze positive e negative. Insegnamogli a praticare uno sport ragionato che gli permetta di sentirsi autonomi, autodeterminasti, consapevoli delle competenze e degli errori commessi.

 

Calcio per giovani con autismo

La mancanza di formazione degli allenatori nello sport

Come succede spesso a ogni inizio di anno scolastica si discute del ruolo degli insegnanti, dei genitori, di nuove regole sull’uso degli smartphone e su tutto quello che nonna bene nella nostra scuola italiana. Su questo tema ho scritto già diversi blog.

Sul tema dell’educazione dei giovani sappiamo benissimo quanto lo sport sia uno mezzo di crescita e di sviluppo se utilizzato nel modo migliore. Resta da capire chi si occupa della formazione degli istruttori e degli allenatori. I laureati in scienze motorie escono dall’università con un bagaglio di conoscenze psicologiche anche rilevante, ma nel percorso di studi non hanno sviluppato la capacità di saperle applicare. Le lotte tra il Coni e Sport Salute hanno ridotto al minimo le occasioni di formazione e il numero dei corsi, restano le azioni formative svolte dalle singole federazioni, ognuna con i suoi pregi e limiti, strette fra troppi vincoli che una Scuola dello Sport nazionale permetteva di superare a livello di qualità e quantità di proposte formative e qualità ed esperienza dei formatori. Sono anche diversi anni che non viene più pubblicate l’unica rivista italiana di scienze dello sport sembra a causa di queste problematiche istituzionali.

Non è poi pensabile che il calcio, la pallavolo, l’atletica, e il nuoto per citarne solo alcune abbiano diverse proposte formative, quando i principi base di un percorso educativo rivolto ai giovani sono sostanzialmente analoghi, al di là della specifica proposta sportiva.

E’ interessante notare che negli sport più praticati spesso sono le stesse società sportive che avendo al loro interno uno psicologo, forniscono in questo modo un supporto formativo sul campo ai loro istruttori e un sostegno alle famiglie e ai giovani. Questo è frequente nel tennis e nel calcio giovanile, per il fatto che le rispettive federazioni prevedono formalmente l’inserimento dello psicologo nelle singole società. Per la federazione tennis e padel devono inoltre essere stati qualificati da un corso federale di preparatore mentale di primo livello aperto solo a psicologi. Per la federcalcio è invece necessario che lo psicologo abbia svolto un master di psicologia dello sport.

Come spesso succede i Italia, le carenze istituzionali vengono superate direttamente alla base da chi svolge direttamente il lavoro con i giovani.

 

 

La vecchiaia: l’età della sperimentazione

Lo scrittore Erri De Luca interpreta la vecchiaia come l’età della sperimentazione. Subito quando ho sentito parlare in questo modo mi sono trovato dentro a una idea di vita di questi anni che corrisponde al mio modo di vivere attuale. Andiamo avanti verso l’inconosciuto, il nostro corpo non è certo più quello di quando eravamo giovani o anche solo cinquantenni, non risponde più come prima ma ugualmente contiene una forza e resistenza, che solo qualche decennio fa sarebbe stata definita come strepitosa per pochi esseri umani eccezionali e che invece oggi è patrimonio di molte persone. Quindi avere consapevolezza di se stessi, di come preservarsi ma anche migliorare le nostre capacità intellettuali, sociali e fisiche deve essere visto come un obiettivo quotidiano e non certo un modo per preservare la gioventù che ovviamente non c’è più.

Percorrere questa strada significa impegnarsi a realizzare un progetto personale di crescita che continuerà sino a quando avremo le capacità per portarlo avanti. Non è una sfida con se stessi, non è una gara contro il tempo, per me è il modo per continuare a dare un senso alla quotidianità fatta di impegno professionale, rapporti interpersonali e allenamento. Vuol dire vivere le giornate per continuare a sentirsi soddisfatti di come si trascorre il tempo e continuando a percorrere questo sentiero verso l’inconosciuto. Perchè non si possono conoscere gli ostacoli che si presenteranno domani a limitare questo tipo di vita, ci saranno sicuramente e quando si verificheranno si penserà a come affrontarli e come andare oltre.

E’ simile a quando in montagna cala la nebbia e si rallenta per non perdere la strada, ci si ferma si cerca il prossimo segnale di riferimento e solo a quel punto si chiama il compagno che è rimasto fermo all’ultimo segnale visto, ci si riunisce nuovamente e si procede in questo modo sino alla fine del sentiero. Nella vita di tutti giorni cerco di procedere nello stesso modo, sempre avanti ma rallentando quando è necessario. La vecchiaia aiuta a mantenere questo approccio, poiché il recupero fisico e mentale è più lento e va rispettato se si vuole andare lontano. Quindi, andiamo avanti con gioia in questo nuovo mondo della vecchiaia.

 

30 anni di consulenza psicologica nel tiro a volo

Quest’anno sono 30 anni che lavoro nel tiro a volo. E’ un traguardo importante che attraversa la maggior parte della mia vita professionale e che sono riuscito a raggiungere grazie alla fiducia delle organizzazioni e degli atleti/e con cui ho lavorato, alla curiosità che ho dimostrato verso queste discipline sportive e alla perseveranza e al desiderio di migliorare che mi hanno sempre guidato.

Avevo 39 anni e venni presentato dal medico federale, Francesco Fazi, al presidente Luciano Rossi e ai commissari tecnici delle tre discipline (fossa olimpica, skeet e double trap)  che decisero d’inserirmi come psicologo all’interno delle squadre nazionali. Devo ammettere che non conoscevo nulla di questo sport e soprattutto delle sue implicazioni psicologiche e degli stati d’animo dei tiratori durante le gare. Certamente, era facile dire che gli errori erano determinati dallo stress agonistico ma come essere utili ad atleti che perdevano una gara per un piattello, perché ne prendevano magari 121 su 125 quando si entrava in finale prendendone uno in più. Quindi come provare a migliorare le prestazioni di quel poco (un piattello in più) che faceva però la differenza tra una vittoria e una sconfitta?

Questo era il compito che mi era stato affidato e guardando le prime gare non era affatto evidente quale fosse l’approccio alla singola pedana quando si rompeva il piattello rispetto a quando lo si mancava. Mi vennero incontro gli allenatori che mi spiegarono come funzionava questo sport e gli stessi tiratori che iniziarono a raccontarmi come vivevano le gare, i loro pensieri e le emozioni, il loro dialogo interno nei vari momenti prima e durante la gara, nelle pause tra le serie e prima di commettere un errore. Passai molto tempo con loro sino alle Olimpiadi del 2000 in Australia, andando ogni anno agli europei, ai mondiali e ai collegiali. Nel contempo nel 1998 avevo iniziato a seguire i tiratori delle Fiamme Oro allenati da Pierluigi Pescosolido con cui abbiamo lavorato settimanalmente sino alle Olimpiadi di Londra nel 2012.

L’attività svolta con i tiratori italiani, fra i migliori al mondo, mi ha permesso d’iniziare a lavorare a livello internazionale. L’occasione mi è stata fornita da Marcello Dradi, che mi contattò per fornire una consulenza ai tiratori indiani e a quelli iraniani di cui era l’allenatore. E’ stata una collaborazione che mi ha aperto alla conoscenza di mondi e mentalità diversi e che è proseguita sempre con Dradi anche come consulente della nazionale cinese di trap sino all’inizio del Covid, quando ovviamente si è conclusa. Negli stessi anni ho seguito anche la preparazione di James Galea, affermato medico di Malta, motivato a diventare un tiratore professionista. Abbiamo lavorato insieme alcuni anni con intensità e grazie a lui mi venne offerta una consulenza psicologica per la nazionale di Malta nell’anno di preparazione per i Giochi del Commonwealth del 2014.

In questi ultimi anni il mio impegno con il mondo del tiro a volo si è ridotto ma quest’anno sono stato una settimana a Taiwan per tenere un corso teorico-pratico sull’allenamento psicologico nel tiro a volo e nel tiro a segno. Nella parte pratica ho lavorato con i loro atleti nazionali e uno di loro il tiratore Lee Meng Yuan al suo debutto alle olimpiadi ha vinto la medaglia di bronzo nello skeet, spero di essergli stato utile per lo 0.1 per cento.

Ruolo dei genitori nello sviluppo sportivo dei figli

Le famiglie sono spesso prese dal decidere quale sport fare praticare ai loro figli e su questa tema i media in questo periodo spendono parole per dare consigli. Ci si chiede se per un bambino definito timido sia meglio uno sport di squadra o uno sport individuale ma di contatto. Quale sia il migliore per favorire la socializzazione o accrescere la fiducia e così via.

Ci si dimentica che sarebbe meglio fare praticare più sport anziché uno solo o che qualsiasi sport si svolge in gruppo e ogni allievo deve collaborare. Di solito nessuno si occupa di fornire spiegazioni di questo tipo ai genitori, che rimangono prede della rete delle società sportive, monosportive, che le rincorrono.

Capisco anche che una scuola calcio o una società di nuoto o di qualsiasi altro sport debba perseguire i suoi obiettivi che sono quelli di avere il maggior numero possibile di iscritti per fargli fare uno sport specifico. A questo problema dello sport, in Italia, non c’è soluzione e quindi continuerà questo modello.

Tuttavia vi è un compito importante per i genitori e che possono svolgere in completa autonomia. Riguarda il tempo libero che i bambini hanno al di fuori del tempo della scuola e dei due allenamenti sportivi. Cosa fanno in questo tempo libero? Si muovono, giocano con altri, vanno al parco o altro? O stanno a casa da soli e giocano con la playstation e lo smartphone?

Questo tempo è estremamente importante per permettergli di organizzare giochi e attività con i coetanei e imparare a sentirsi autodeterminasti e via-via più autonomi. Direi che questo è un ruolo significativo che la famiglie possono svolgere, anche divertendosi con i figli e svolgere la loro funzione educativa.

 

Le motivazioni da insegnare ai giovani

All’inizio del nuovo anno scolastico e sportivo si ritorna a parlare dell’educazione dei giovani, di come si possa contrastare questo aumento ormai consolidato negli anni di casi di disagio, che culmina in un aumento della depressione dell’ansia ormavi consolidato e negli anni ripetitivo, senza parlare di casi di cronaca che ci spaventano e fanno sentire impotenti gli adulti.

A dimostrazione di quanto questa realtà non sia un fenomeno limitato all’Italia o a qualche nazione sono state condotte indagini nei diversi continenti, in relazione ai seguenti temi: “A scuola mi sento solo”, “A scuola mi sento fuori dal gruppo e dalle cose”, oppure “A scuola faccio con facilità amicizia”. E’ emerso che a partire dal 2012 la percezione di non avere amici e di sentirsi soli è aumentata quasi ovunque.

Questo ha determinato la riduzione della capacità di essere concentrati sul presente, di restare in contatto con il proprio ambiente sociale e le persone e soprattutto una visione malata di se stessi nel mondo, dominata invece dalle distorsioni create tramite i social, vissute come realtà. Anche molte aziende sono consapevoli di questi problemi, fra questi Dove ha ideato la campagna #NoDigitalDistortion volta ad accrescere l’autostima delle giovani e a promuovere un’immagine positiva del corpo sui social media. O il programma Body Confident Sport, una campagna di body confidence in collaborazione con Nike per aumentare la fiducia nel proprio corpo delle ragazze che praticano sport.

Servirebbe un’alleanza fra famiglie, scuola e società sportive per insegnare a coltivare in ognuno passione e interesse verso le attività che svolgono.

Ciò servirebbe non tanto per creare un sistema di divieti, ma per stimolare le tre motivazioni principali che sostengono la crescita: il gioco libero, l’adattamento e l’apprendimento sociale.

L’infanzia dovrebbe essere fondata sul gioco, come per tutti i mammiferi, è il periodo in cui s’impara facendo esperienze con una forte valenza emotiva, sono attività non supervisionate dagli adulti, in cui s’impara l’autocontrollo e si risolvono i conflitti, sono attività svolte con piacere e liberamente scelte, non svolte per raggiungere obiettivi prefissati. Il gioco fisico, all’aperto, in cui si prende qualche tipo di rischio, con bambini di età variata è il modo più naturale di giocare. Troppo spesso quando genitori, insegnanti, allenatori intervengono il gioco diventa meno libero, meno piacevole e produce meno benefici. Per quanto riguarda lo sport in questa età infantile, il problema non è rappresentato dalle ore di allenamento ma da come si occupa il resto del tempo in cui spesso non si ha la possibilità di praticare il gioco libero.

Il secondo aspetto motivazionale ci ricorda che sin dall’inizio della vita i bambini sono coinvolti in un continuo scambio emotivo con il loro ambiente sociale, che all’inizio dovrebbe essere rappresentato dai genitori. Quindi si cresce tramite lo sviluppo dei rapporti interpersonali con un numero sempre più ampio di persone, con rapporti diretti faccia a faccia, con interazioni fisiche e motorie e con i modi tipici di ogni cultura. Il mondo dei social procede in maniera opposta, allontanando da questi rapporti e proponendone altri falsamente realistici ma è un mondo in pieno sviluppo questo dei social.

Il terzo aspetto dello sviluppo dell’essere umano è l’apprendimento sociale. Non riguarda l’apprendimento scolastico ma l’attivazione del desiderio  d’imparare attraverso l’imitazione e avere alcune persone come modello da seguire. All’inizio imiteranno i genitori ma poi amplieranno le loro scelte su altre persone.

 

 

 

 

 

Perchè ci appassiona lo sport?

Spesso mi viene chiesto come mai ci si appassiona per le imprese sportive delle squadre e dei singoli atleti. Intanto voglio premettere che gli sportivi, come venivano chiamati una volta  gli atleti indipendentemente dallo sport, hanno sempre suscitato forti passioni basti ricordare fra le molte esperienze i duelli fra Coppi e Bartali o Gimondi e Merckx, le partite del grande Torino e le discussioni su Mazzola e Rivera.

Lo sport di livello assoluto è composto di eventi, le gare, in cui i migliori si danno battaglia e si distinguono dagli altri per la qualità delle loro prestazioni.  Credo che sia questo che appassiona: veder l’eccellenza emergere, grazie alle qualità personali e di squadra. Se ci si pensa sono tra le uniche prestazioni umane in cui in un tempo breve e definito, la durata della competizione,  è possibile osservare proprio quando vengono svolte prestazioni irripetibili come ad esempio i record del mondo. Queste performance le vediamo mentre sono in corso, probabilmente le uniche altre con queste caratteristiche sono le rappresentazioni teatrali e le performance musicali live.

Lo sport ci ricorda l’importanza che ha per noi la necessità di provare emozioni positive e che ci aiutano a stare bene. La vita quotidiana è avara nel farci vivere questi stati d’animo e allora le prestazioni degli atleti ci vengono incontro per darci momenti di benessere, spesso anche condivisi con le persone a noi vicine, famiglia e gli amici.

 

 

Ritorno al lavoro: la noia del primo giorno

Settimane entusiasmanti di sport dalle Olimpiadi alle Paralimpiadi, dove abbiamo visto atleti disposti a ogni sacrificio pur di raggiungere il loro obiettivo, da Tamberi che beveva solo un bicchiere d’acqua per sostentarsi alla Palmisano che ha gareggiato con il Covid, agli atleti paralimpici che mostrano come ogni prestazione sia raggiungibile indipendentemente dalla propria condizione di partenza. E’ un po’ l’essenza del concetto rappresentato dalla parole “che tu sia gazzella o leone inizia a correre”.

E’ la stessa cosa che succede il primo giorno di lavoro dopo le vacanze, anche se non nei hai voglia inizia a lavorare. Con questo approccio questa prima giornata si sta avviando a concludersi, l’importante è essere di nuovo partiti, c’è tempo per gli entusiasmi, non si può pretendere di averli il primo giorno. Meglio non pensarci troppo e ricominciare. A un certo momento l’abitudine ritornerà a prevalere, si ritroverà interesse verso ciò che si fa, capiteranno eventi inaspettati che alzeranno la nostra soglia emotiva e così riprenderemo il nostro percorso dal punto in cui l’avevamo lasciato.

Godiamoci comunque queste prime giornate e anche la nostra svogliatezza nel fare, perchè quando tutto scorrerà di nuovo alla solita velocità, rimpiangeremo questi iniziali momenti di noia.