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Le strategie mentali dei maratoneti

Per gli psicologi dello sport lo studio delle strategie cognitive dei fondisti è particolarmente interessante, in quanto questi atleti si sottopongono a un elevatissimo stress psicofisico durante il quale devono fornire il meglio di sé.

Il primo studio sistematico condotto sulle strategie cognitive dei fondisti è stato effettuato da Morgan e Pollock [1977], su un campione composto da atleti di livello mondiale e da mezzofondisti di livello inferiore. Per classificare le strategie utilizzate durante la corsa gli autori hanno utilizzato i termini associazione e dissociazione.

Nella prima condizione gli atleti si focalizzano sulle sensazioni provenienti dal loro corpo e sono consapevoli dei fattori fisici fondamentali per quel tipo di prestazione. Nella strategia di dissociazione, invece, i pensieri dell’atleta sono concentrati su qualsiasi cosa, eccetto che sulle sensazioni corporee.

Durante la competizione le strategie cognitive del gruppo di élite rispetto a quelle dell’altro gruppo si differenziano in funzione di queste due caratteristiche. Infatti, per contrastare gli stimoli dolorosi gli atleti di livello inferiore si servono della strategia dissociativa, mentre quelli di élite usano quella associativa e conseguentemente modulano il loro passo.

Inoltre, durante la corsa i maratoneti esperti non attribuiscono molta importanza alla cosiddetta zona del dolore, per almeno due motivi che li differenziano dai meno esperti. Il primo si riferisce alla loro superiorità fisiologica, che gli permette di correre al loro limite incontrando un grado minore di difficoltà. Il secondo, riguarda il fatto che evitano questa zona del dolore, poiché sono capaci di autoregolarsi durante l’intero arco della corsa, basandosi proprio sulle loro sensazioni interne.

Nello specifico nella fase associativa il podista, nello sforzo di massimizzare la prestazione e ridurre al minimo i disagi o le sensazioni dolorose, si focalizza continuamente sulle sensazioni fisiche quali sono la respirazione, la temperatura, la pesantezza dei polpacci e delle cosce e le sensazioni addominali. Questa modalità cognitiva è abbastanza impegnativa per gli atleti, in quanto richiede l’abilità di concentrarsi per lunghi periodi di tempo. La fase dissociativa si presenta quando l’atleta in modo volontario si distrae dai feedback sensoriali che incessantemente riceve dal corpo.

In sintesi:

  • Associazione e dissociazione dovrebbero essere considerate come i due poli estremi di un continuum e non interpretate in termini dicotomici, specialmente quando vengono usate nella corse di lunga distanza.
  • L’uso delle strategie associative è maggiormente correlato con prestazioni di lunga distanza veloci rispetto all’uso delle strategie dissociative.
  • In gara i runner preferiscono servirsi di strategie associative (focalizzazione sul monitoraggio dei processi del corpo e controllo della strategia di gara). Invece, in allenamento si servono maggiormente di strategie dissociative, sebbene queste due strategie sono comunque utilizzate in ambedue i contesti.
  • La dissociazione è inversamente correlata con la consapevolezza fisiologica e i sentimenti derivati dalla percezione dell’intensità dello sforzo profuso. Ciò è stato maggiormente evidenziato negli studi di laboratorio.
  • La dissociazione non aumenta la probabilità d’infortunarsi e può ridurre la fatica e la monotonia della corsa e delle corse svolte a scopo ricreativo.
  • L’associazione può consentire all’atleta di continuare a gareggiare anche in presenza di un dolore sensoriale.
  • La dissociazione dovrebbe venire utilizzata come tecnica di allenamento da chi vuole aumentare la sua adesione all’esercizio, perché permette di percepire in modo migliore e più piacevole il fine dell’esercizio.
  • All’aumento del carico dell’allenamento si verifica uno spostamento da strategie dissociative a strategie associative, così da incrementare la concentrazione dell’atleta sul compito che dovrà svolgere.
  • Quando si utilizza un focus attentivo rivolto verso se stessi, per aumentare l’efficienza della corsa, ci si dovrebbe concentrare sulle sensazioni del corpo piuttosto che sulle risposte automatiche  come il respiro e i movimenti della corsa.

L’efficacia collettiva negli sport di squadra

Negli sport di squadra è bene ricordare che per vincere «La squadra campione batte una squadra di campioni», a indicare che anche la squadra ideale composta da soli campioni deve comunque integrare le competenze di ognuno coordinandole in modo efficace, nonostante possegga a priori un migliore potenziale qualitativo a livello individuale.

Per integrare le competenze è necessario distinguere fra la competenza acquisita attraverso l’esperienza di giocare un determinato sport e l’esperienza di giocare in una particolare squadra.

L’importanza di questa distinzione è stata messa in evidenza da studi che hanno evidenziato che la conoscenza condivisa è importante per la coordinazione della squadra e che si giunge a condividere la conoscenza con altri membri della squadra giocando quello sport ma anche giocando in quella particolare squadra.

La conoscenza condivisa è anche acquisita prima di una data partita attraverso una pianificazione esplicita. Gli allenatori abitualmente forniscono ai giocatori informazioni sulle azioni previste dalla squadra comunicando loro piani d’azione per affrontare gli avversari. La pianificazione può avvenire a diversi livelli di funzionamento della squadra

A livello più generale, si stabiliscono i risultati che si vogliono ottenere, ad esempio “vincere 2-0″. La pianificazione a questo livello implica una decisione su quale risultato perseguire.

A livello immediatamente inferiore, il disegno si riferisce all’approccio comportamentale generale adottato per manifestare un determinato atteggiamento, come ad esempio il “gioco aggressivo” e la decisione su quale progetto impiegare è definita schema.

Successivamente, le procedure costituiscono specifiche sequenze di azioni di tipo globale come “attaccare dal centro”. La pianificazione a questo livello implica una decisione, chiamata strategia, su quale procedura (o procedure) impiegare.

Al livello più basso, le operazioni costituiscono azioni di microlivello come “il giocatore X dovrebbe tentare, quando possibile, di passare al giocatore Y”. Una decisione a questo livello su quale operazione impiegare è chiamata tattica.

Mentre la pianificazione può avvenire a qualsiasi livello di astrazione, il disegno e cioè il progetto di partita che coinvolge solo i livelli più alti pone pochi vincoli su come quel piano di azione potrebbe essere implementato ai livelli inferiori. Per esempio, nel calcio il progetto di “giocare in attacco con elevata intensità” fornisce pochi vincoli specifici sulle selezioni momento per momento dei giocatori a livello operativo durante la partita, consentendo flessibilità nell’uso delle tattiche per attaccare con elevata intensità.

Mental coaching negli sport ad alta intensità

Birrer, D. and Morgan, G. (2010), Psychological skills training as a way to enhance an athlete’s performance in high-intensity sports. Scandinavian Journal of Medicine & Science in Sports, 20: 78-87.

Negli sport professionali e semi-professionali di oggi, la sottile linea che separa la vittoria dalla sconfitta si sta progressivamente assottigliando. Già ai Giochi Olimpici di Pechino del 2008, la differenza tra il primo e il quarto posto nelle gare di canottaggio maschile era in media dell’1,34%, mentre l’equivalente per le donne era solo dell’1,03%. Questa crescente densità di prestazioni crea una pressione enorme. Non sorprende quindi che negli ultimi anni sia stata riconosciuta l’importanza dell’allenamento psicologico delle competenze (PST) e che sia aumentato il numero di atleti che utilizzano strategie di allenamento psicologico.

Il presente lavoro si propone di analizzare l’effetto del PST sul progresso delle prestazioni di un atleta, con particolare attenzione a un gruppo di sport che comportano un carico ad alta intensità. Gli sport ad alta intensità (HIS) sono caratterizzati da una durata dell’impatto compresa tra 1 e 8 minuti, con un’intensità d’impatto molto elevata e un’erogazione di potenza continua per tutta la fase della prestazione. Esempi tipici di HIS sono il canottaggio, il nuoto, la corsa su pista di 800 e 1500 m, il ciclismo su pista e la canoa in acqua piatta.

Quello che sembra essere cruciale per fornire prestazioni al massimo livello è la presenza della paura del fallimento. L’impatto psicologico e fisico della paura sono numerosi. Influisce sullo stato affettivo degli atleti, può ridurne la motivazione ad allenarsi e competere, influire sulla fiducia in sé stessi degli atleti e sulle loro abilità volitive ed attentive, genera sentimenti di ansia e aumenta la tensione muscolare, che può portare a perdita di coordinazione.

Diverse strategie sono state proposte per modificare il loro stato di attivazione: tecniche psicologiche di stimolazione o di riduzione dell’attivazione, coinvolgendo auto-dialogo, immaginazione, attività fisica, rilassamento breve o guidato; routine pre-performance e performance; strategie di esercitazione mentale; gestione dello stress e strategie di potenziamento dell’umore.

La maggior parte delle ricerche mostra che queste strategie possono ridurre l’ansia o l’interpretazione dei sintomi dell’ansia da performance come debilitanti. Quasi tutti gli studi non sono riusciti a dimostrare un impatto chiaro sulla performance. Una ragione potrebbe essere che non è ancora chiaro se e quando l’ansia o la paura esercitano un effetto benefico, quale livello di attivazione facilita la performance e in quali condizioni lo stesso livello potrebbe essere debilitante.

È rilevante il riconoscimento precoce e il controllo dei sintomi d’ansia associati a prestazioni superiori negli atleti d’elite. Questa affermazione indica che due fattori sono importanti per gli atleti:

  1. Conoscere il loro stato individuale di attivazione facilitante la performance prima e durante la competizione.
  2. Essere consapevoli del loro attuale stato di attivazione e di come poterlo influenzare perchè diventi un fattore facilitante la performance.

Tuttavia, considerando la quantità di ricerche condotte in questo settore, c’è sorprendentemente poca conoscenza specifica dello sport riguardo al livello ottimale individuale di attivazione.

Gli atleti possono interpretare l’intensità dei sintomi legati all’ansia o all’attivazione come facilitanti (gli atleti vengono chiamati “facilitatori”) o debilitanti (gli atleti vengono chiamati “debilitatori”) rispetto alla performance e questa differenziazione potrebbe essere critica nel favorire l’efficacia della gestione pre-competizione. Facilitatori e debilitatori sperimentano più o meno gli stessi sentimenti nelle fasi precedenti a una competizione, ma l’intensità è inferiore nei facilitatori.

I facilitatori sembrano capaci di utilizzare un repertorio di abilità psicologiche, che permette loro di reinterpretare le sensazioni cognitive e somatiche negative come facilitanti per la performance. Al contrario, i debilitatori cercano di utilizzare le stesse abilità psicologiche ma non sono in grado di controllarle internamente, sperimentando una perdita di controllo (incapacità di raggiungere uno stato pre-performance positivo), una fiducia inferiore e una interpretazione debilitante continua dell’input sensoriale mostrano che potrebbe essere possibile ristrutturare l’interpretazione degli atleti di sintomi di ansia e fiducia con:

  • interventi multimodali (immaginazione, razionalizzazione, ristrutturazione cognitiva, definizione degli obiettivi e auto-dialogo),
  • effetti positivi sulla loro fiducia,
  • valutazione dell’ansia e delle loro performance.

Dottori di ricerca ansiosi e depressi

L’Associazione dottori e dottorandi italiani ha condotto una ricerca su  7.000 iscritti a un dottorato che hanno risposto al questionario posto e che hanno messo in luce che quasi la metà degli studiosi del gradino più alto dell’istruzione-formazione del Paese abbia una salute mentale ad alto rischio.

  • 27 %  riporta punteggi classificati come gravi o molto gravi su una scala che valuta l’ansia, il 36% denuncia una situazione simile per quanto riguarda la depressione e il 37% per lo stress. Dati più alti di quelli riscontrati nella popolazione generale ma anche di quelli dei colleghi dottorandi e dottorande all’estero. Solo il 52% non presenta alcun punteggio grave.
  • 20% ha valori gravi nelle tre dimensioni psicopatologiche: stress, ansia, depressione.
  • 16.243 euro (1.195 netti al mese) è l’importo lordo minimo fissato dal ministero dell’Istruzione e della Ricerca per una borsa di dottorato. Il potere di acquisto è in calo dell’8,7 per cento rispetto a 15 anni fa e del 9 per cento rispetto al valore del 2020.
  • 61,6%  dei dottorandi è nella fascia tra 1.100 e 1.200 euro al mese, il minimo della borsa. Il 9%  è al disotto. Meno di un terzo del campione, quindi, supera i 1.200 euro mensili e solo il 18,6%  supera i 1.300 euro mensili.
  •  24 città su 40  ospitano l’80,2% del totale dei posti di dottorato in Italia. L’affitto di un monolocale di 35 metri quadrati in centro è superiore al 30 per cento della borsa.
  • 52% non riuscirebbe a sostenere una spesa imprevista di 400 euro, e solo il 26% supera la soglia determinante di 800 euro, “quella utilizzata nelle statistiche ufficiali per determinare lo stato di povertà”.
  • 88% percepisce la precarietà del ruolo e oltre il 50% inizialmente intenzionato a rimanere nel mondo accademico dichiara di aver cambiato idea.
Essere brave e bravi in Italia è una disgrazia.

Emma 90 anni e il piacere della pressione pre-gara

Quale migliore invito a praticare sport di quello di Emma Maria Mazzenga, che a 90 anni ha abbattuto di ben 6 secondi il vecchio record del mondo sui 200m, che resisteva da 20 anni,  correndo questa distanza in 54.47  secondi : “Mi alleno tre volte a settimana, ho partecipato a Mondiali ed Europei. In gara sento la tensione, alla fine i muscoli sono indolenziti ma lo spirito sta molto meglio”.

Talvolta è vero che tutto è possibile. Ci sono persone come Emma che s’impegnano per il piacere di farlo: “Mi diverto, posso frequentare tante persone, con me sono tutti gentilissimi. E poi l’agonismo mi è sempre piaciuto: ho lo spirito della gara”.

Hanno il piacere di vivere l’emozione della gara, che invece blocca molti giovani atleti: “Eh sì, ero in tensione. Anche se i 200 li affronto abbastanza facilmente, al traguardo arrivi sempre, mentre mi mandano in crisi i 400, che sono la mia gara, perché io non ho tanta velocità, ho più resistenza”.

E allora W Emma e tutte/i quelli come lei.

Emma Maria Mazzenga festeggia il suo record

Lavoro: trend 2024 dell’American Psychology Association

Quando si tratta di occupazione, gli americani in varie professioni, dai lavoratori dell’auto agli attori di Hollywood, dai fondatori di startup ai camerieri nei ristoranti, si sentono incerti a causa dell’intelligenza artificiale (IA), delle ripercussioni della pandemia, della progettazione del lavoro e di altri fattori, sostengono gli psicologi.

“L’instabilità del lavoro è qualcosa che fa parte dell’umanità, e sembra che stia peggiorando in alcuni modi perché effettivamente sta peggiorando”, afferma David Blustein, PhD, professore nel Dipartimento di Counseling, Psicologia dello Sviluppo ed Educativa del Boston College.

“La cosa più importante che le persone desiderano ora è la stabilità, soprattutto nei loro luoghi di lavoro”, afferma Ella F. Washington, PhD, psicologa organizzativa e professore presso la McDonough School of Business della Georgetown University.

Ma il futuro del lavoro non è del tutto cupo: un terreno instabile sta rafforzando la determinazione dei lavoratori nel difendere significato, benessere ed equilibrio tra lavoro e vita, e gli psicologi sono pronti ad aiutare.

[Correlato: Un senso di appartenenza è cruciale per i dipendenti. Come i datori di lavoro possono favorire connessione e supporto sociale]

“Sappiamo come migliorare i lavori e motivare, aumentare la soddisfazione delle persone e fare in modo che aggiungano valore”, afferma Susan J. Lambert, PhD, co-direttrice della Rete di studiosi sull’instabilità dell’impiego, il benessere familiare e le politiche sociali presso l’Università di Chicago.

In altre parole, lavorare per una maggiore stabilità, aggiunge, “è vantaggioso per gli affari e è vantaggioso per le persone, e penso che sia davvero vantaggioso per la società”.

Origini dell’instabilità

L’instabilità sul lavoro non significa solo la minaccia o la realtà dei licenziamenti. I ricercatori la definiscono come “uno stato in cui le conseguenze di una discrepanza tra le capacità funzionali e/o cognitive di un individuo e le richieste del proprio lavoro possono minacciare l’impiego continuativo se non risolte” (Brain Injury, Vol. 20, No. 8, 2006).

Forse qualcuno non viene pagato abbastanza per mantenere il proprio stile di vita, forse non riesce a tenere il passo, forse gli manca un senso di appartenenza, forse il suo ambiente è semplicemente tossico.

Comunque lo vivano, la pandemia è forse il più evidente motore dell’instabilità sul lavoro, continuando a scuotere il terreno letterale su cui molti dipendenti si trovano mentre i datori di lavoro sperimentano con orari ibridi. Sebbene la ricerca suggerisca che maggiore flessibilità benefici principalmente la salute mentale e la produttività dei lavoratori, le rapida evoluzione delle direttive su chi dovrebbe lavorare dove e quando può essere destabilizzante, così come un ambiente d’ufficio che non è più lo stesso.

I dipendenti “non sono necessariamente nello stesso luogo quando sono ‘sul luogo di lavoro’. Non sono necessariamente, o raramente, con le stesse configurazioni di persone e attività di prima”, afferma Amy Wrzesniewski, PhD, professore di gestione alla Wharton School presso l’Università della Pennsylvania, che studia il significato del lavoro. “Quindi forse le persone sono in ufficio alcuni giorni alla settimana, ma l’ufficio non è più l’ufficio”.

Anche la progettazione del lavoro contribuisce all’instabilità, afferma Lambert, professore presso la Crown School of Social Work dell’Università di Chicago, che studia le pratiche di pianificazione del lavoro tra i lavoratori a basso reddito. “Molti lavori sono stati così frammentati che le persone non possono completare un lavoro dall’inizio alla fine e non possono essere orgogliose di esso”, afferma.

È più facile per un venditore che segue un acquisto fino in fondo trarre soddisfazione, ad esempio, rispetto a chi ha il compito di fissare i prezzi degli articoli. In altre parole: quando i lavori sono progettati in modo che le persone possano essere sostituibili, si sentiranno sostituibili. In modo correlato, una crescente dipendenza dai lavoratori autonomi rispetto a quelli con stipendio fisso sta contribuendo all’instabilità, afferma Blustein.

Questo si è manifestato nello sciopero degli operai dell’auto dell’autunno 2023, afferma, dove i lavoratori hanno chiesto alle aziende di smettere di assumere così tanti lavoratori temporanei per svolgere i loro compiti. Anche le incertezze sugli sforzi di equità, diversità e inclusione (EDI) possono contribuire all’instabilità sul lavoro, specialmente tra i dipendenti provenienti da gruppi emarginati, afferma Washington, un’esperta di EDI che è fondatrice e CEO di Ellavate Solutions a Washington, D.C.

Washington afferma di aver visto molte organizzazioni ridurre il loro impegno per l’EDI, a volte in modo non intenzionale e spesso silenzioso, come ad esempio rendere inattiva una pagina sul loro sito web sull’inclusione o lasciare vacante un ruolo di direttore dell’EDI.

“Per me, questa è la parte più spaventosa del cambiamento perché, a differenza del cambiamento nel 2020, non puoi vederlo fino a quando non è troppo tardi”, afferma. Ma i dipendenti delle popolazioni sottorappresentate possono sentirlo e, di conseguenza, iniziano a ritirarsi psicologicamente.

Ciò ha implicazioni sia per loro che per i loro datori di lavoro, dice Washington. “La ricerca mostra che quando i dipendenti possono essere se stessi autentici e possono lavorare secondo i loro punti di forza, non solo sono più felici e sentono più sicurezza psicologica, ma fanno anche un lavoro migliore”, afferma. Infine, il modo in cui l’intelligenza artificiale sta e influenzerà i mezzi di sussistenza delle persone contribuisce sia all’instabilità pratica che a quella emotiva tra i lavoratori.

Una nuova indagine in seguito al sondaggio del 2023 dell’APA sul lavoro in America specificamente sull’IA, il 38% dei rispondenti ha riferito di preoccuparsi che l’IA potrebbe rendere obsolete alcune o tutte le loro mansioni lavorative, e il 64% di coloro che erano preoccupati ha dichiarato di provare tensione o stress durante la giornata lavorativa.

Sono ancora troppo pochi gli italiani che fanno sport

L’inizio dell’anno è anche tempo di buoni propositi, di pensieri per migliorare il nostro stile di vita e avere uno stile di vita fisicamente attivo.

I dati che l’Istat ci fornisce non sono però così ottimisti tanto che ci pongono al 21° posto fra 27 nazioni europee nella graduatoria della percentuale di persone adulte che praticano attività fisica nel tempo libero.

  • 26,7% pratica attività fisica di tipo aerobico almeno una volta a settimana, in Europa la percentuale è del 44,3%.
  • 14,4%  pratica un’attività di potenziamento muscolare in Europa la percentuale è dell 26,3%.
  • 1,2% è l’incremento dell’attività aerobica tra il 2019 e il 2014 mentre la media europea è passata dal 42,8%  al 44,3 %.
  • 20% della popolazione italiana nel 2019 pratica attività fisica aerobica per almeno 150 minuti a settimana mentre la media europea è del 33%.

Eppure, si potrebbe essere fisicamente attivi non solo praticando sport o facendo movimento nel tempo libero, ma anche scegliendo modalità più “fisiche” negli spostamenti quotidiani, ad esempio per andare al lavoro, a scuola o a fare la spesa.

 

 

Cos’è l’ottimismo

A scuola: i voti servono?

Non mi occupo di scuola ma l’altro giorno ho ascoltato un dibattito alla radio in cui si parlava ancora dei voti, voto sì vs voto no, e comunque della questione dell’apprendimento e della sua valutazione.

Lavorando nello sport anche con adolescenti che frequentano le scuole superiori, ci poniamo gli stessi interrogativi degli insegnanti: come insegnare e valutare gli apprendimenti e come tenere in considerazione i risultati delle prestazioni agonistiche, che equivalgono ai voti della scuola.

Sappiamo che gli esseri umani vogliono sentirsi autonomi, autodeterminanti e competenti. Pertanto quale che sia l’insegnamento, quello sportivo o quello scolastico o altri ancora come quello artistico deveorientarsi a soddisfare queste esigenze con una didattica adeguata in funzione delle caratteristiche delle attività a cui si rivolge.

Non si tratta quindi nel XXI° secolo di fare guerre ideologiche ma di servirsi di ciò che la scienza ci dice su questi temi e trarne dei programmi di apprendimento. Anche il voto in questa dimensione può essere uno dei modi valutativi con cui identificare le conoscenze e le prestazioni di uno studente, così come la classifica nello sport. Nello sport è riconosciuto che il risultato è una misurazione di quanto si è stati in grado di fare più gli errori e per la prossima prestazione si lavora per ridurre quegli errori.

E’ chiaro che ciò può avvenire solo se gli allenatori e gli insegnanti si percepiscono anche loro responsabili delle prestazioni dei loro allievi, secondo una regola per cui io ti insegno/alleno a migliorare e tu t’impegni a imparare. Senza questa alleanza ognuno va per la sua strada. Quindi, a mio avviso, abbiamo bisogno di una valutazione analitica che identifichi le competenze dei giovani in modo specifico e poi di momenti di valutazione come le gare nello sport e le prove scolastiche che forniscono un dato globale. Non vedo contraddizione tra queste valutazioni che secondo me dovrebbero sempre procedere insieme come basi per il contino miglioramento.

Funzione dello sport nella nostra società

Nello sport ci troviamo nella curiosa situazione per cui è dimostrata la sua importanza per condurre uno stile di vita fisicamente attivo, ridurre lo stress quotidiano e favorire il benessere individuale dall’altra parte per gli atleti lo sport può esse fonte di stress, di stimolo per l’insorgenza di psicopatologie e per allontanarli dalla realtà della vita quotidiana.

Abbiamo atleti come il calciatore inglese Henderson che è andato a giocare in Arabia Saudita per 40milioni e ora si considera scontento s vorrebbe andarsene e persone che si considerano felici perchè sono riusciti a vincere la battaglia contro la sedentarietà e le limitazioni quotidiane che determina.

Cosa impariamo da queste situazioni, che non lo sport a fare bene come spesso con molta retorica si è affermato. Lo sport, come lo studio e come il lavoro è un’attività umana il cui effetto positivo/negativo sulla persona dipende da come viene questa attività svolta.

Lo sport come attività ricreativa viene svolta sulla base della scelta di prendersi cura di se stessi, come attività del tempo libero, piacevole e realizzata a propria misura. Su queste basi è un percorso che attraverso il movimento produce benessere e lo sviluppo nel tempo di nuove abilità.

Lo sport di prestazione richiede invece un impegno totale da parte di chi lo sceglie e le gare rappresentano rappresentano il momento di confronto delle proprie competenze con quelle di altri atleti. Lo sport di prestazione di livello assoluto richiede una dedizione totale, così come qualsiasi altra attività umana che una persona consideri come fondamentale per realizzare se stessa. E’ un’attività per la quale si decide abbandonare altre attività che sono percepite come ostacoli all’impegno totalizzante dello sport. A mio avviso, sono gli atleti migliori e con maggiori aspettative che possono sviluppare seri problemi psicologici, mentre è probabile che quelli che hanno meno successo o che non vogliono svolgere un’attività così impegnativa tendono a costruirsi altre situazioni nella loro vita che senza volerlo li difendono da queste problematiche.

La questione per me allarmante è che queste problematiche non sono solo frequenti fra gli atleti di livello assoluto ma anche fra gli atleti adolescenti. Si tratta di ragazzi e ragazze di 14-19 anni o anche di età inferiore se si parla di sport ad avviamento precoce, che per le loro capacità sono entrati in un circuito federale o di organizzazione sportive che svolgono un’attività molto impegnativa come atleti, hanno l’obiettivo di farla diventare la loro professione ma ovviamente non sanno se ci riusciranno.

Noi che lavoriamo con loro cosa vogliamo per loro? Che svolgano l’attività come i senior per vedere chi ci riuscirà? Che frequentino scuole facilitate per potersi allenare e gareggiare per più tempo? Qual è il ruolo delle famiglie? Sono tante le domande e credo che al momento abbiamo poche risposte.