Vivere per essere o vivere per avere, sono due modalità esistenziali basate su idee opposte. Vivere per essere è quello che hanno dimostrato Sinner, Bagnaia e i loro compagni che s’impegnano per essere la migliore versione di loro stessi per raggiungere i loro obiettivi assoluti. Vivere per avere è la cifra di chi vuole possedere, cose e persone non importa, e che quando non soddisfa questo bisogno profondo trasforma la frustrazione in rabbia distruttiva verso le persone amate, così ha fatto l’assassino di Giulia Cecchettin, che come ha scritto sua sorella Elena “non è stato educato al consenso, al rispetto e alla libertà di scelta”.
Avere o essere è il titolo di un libro di Erich Fromm pubblicato nel 1976 che ha descritto con queste due parole due modi opposti di vivere. L’approccio alla vita quotidiana secondo la modalità che si basa sull’avere, caratterizza coloro che hanno un rapporto di possesso con il loro mondo, con l’obiettivo di impadronirsi di cose e persone. Il loro motto si sintetizza nella frase: “Sono ciò che possiedo”. La modalità esistenziale di chi vive secondo l’approccio basato sull’essere si pone su un piano opposto, in cui l’individuo si rappresenta in funzione delle sue azioni, definito dalla frase: “Sono quello che faccio”. Seguendo questa modalità l’esperienza quotidiana non è mai uguale a se stessa , e il presente contiene il passato ed è anticipazione del futuro.
In questi giorni, l’entusiasmo che questi giovani campioni hanno suscitato intorno alle loro imprese e la conseguente massiccia esposizione pubblica che li ha coinvolti sono un esempio di quanto sia forte il bisogno d’identificazione di tutti, adulti e giovani, verso figure giovani, positive che trasmettano spontaneità attraverso le azioni delle loro prestazioni, nonostante siano di livello eccezionale. C’è bisogno nel paese di esempi a cui fare riferimento, anche perché questi giovani campioni non sono soli, accanto loro ve ne sono molti altri, uomini e donne, che lavorano o studiano, che sono altrettanto bravi e brave, che vivono seguendo una modalità esistenziale centrata sull’essere ma che non hanno la visibilità dei nostri giovani campioni. Questi ragazzi vincenti permettono di portare alla luce questi stili di vita centrati sull’autorealizzazione e sul senso di appartenenza. Il messaggio è chiaro: anche se sei un talento non puoi vincere da solo. Come diceva Michael Jordan, da solo si può vincere una partita ma non un campionato.
Non si sentono soli Sinner e Bagnaia, sono consapevoli di essere cresciuti grazie alla squadra, è così che fioriscono i campioni. Dice bene Emanuela Audisio quando scrive che mentre si parla “di ragazzi italiani immaturi, violenti, non attrezzati alle sconfitte, alle frustrazioni, incapaci di rispetto, forse bisognerebbe guardare anche da questa parte dello sport”. Parliamo di come questi ragazzi sono cresciuti, di chi sono stati i loro maestri, di come hanno imparato dagli errori e di come hanno sviluppato una mentalità di squadra anche in sport individuali. Parliamo e andiamo a conoscere anche tutti quegli altri giovani e sono tanti, ragazzi e ragazze, le cui storie non vanno sui media, che non sono famosi ma che perseguono obiettivi personali di autorealizzazione per loro importanti, diamo voce anche a loro. Altrimenti si continuerà a diffondere una narrazione solo negativa di questa gioventù come insicura, viziata e schiava dei social.