Cinque anni fa la parola GOAT è entrata nel dizionario delle lingua inglese, Merriam-Webster, come acronimo e sostantivo. Ciò è stato determinato dall’ampio uso in ambito sportivo. GOAT è l’acronimo di Greatest Of All Times e inizialmente indicava Muhammad Ali, che si autodefiniva il più grande di tutti i tempi. In seguito, è stato associato ai nomi di atleti vincitori seriali a livello mondiale come Michael Phelps, Usain Bolt, Simone Biles, LeBron James, Serena Williams, Tom Brady, Michael Jordan e molti altri.
Goat in inglese significa, innanzitutto, capra. Quindi una parola che riferita agli umani ha un significato dispregiativo (“intelligente come una capra”, “non sai fare nulla, sei proprio una capra”).
Il concetto che sta dietro la parola GOAT è piuttosto semplice, privo di sfumature. Troppa enfasi sulla vittoria e non abbastanza sul valore del superamento, riferito alla spinta continua al miglioramento e ai valori etici. Novak Djokovic è il GOAT del tennis perchè ha vinto più di ogni altro. Ma è veramente migliore di Nadal, Federer, Serena Williams? Perchè non Billie Jean King o Arthur Ashe, certamente vincenti ma ricordati soprattutto per le loro battaglie civili e per l’eredità che ci hanno lasciato. Chi può dirlo, nessuno.
Forse dovremmo vietare del tutto l’uso di questo termine nello sport, seguendo l’esempio della Lake Superior State University, che ha sfacciatamente inserito questo acronimo al primo posto nella lista delle parole da bandire nel 2023.
L’utilizzo dei giovani di questo concetto non vorrei che servisse per sviluppare una concezione ideale di questi campioni fuori da ogni contesto di realtà, enfatizzando solo i risultati eccezionali ma non il lavoro quotidiano che li ha permessi. Spesso con la frase: “Ma loro sono dei campioni”, s’intende affermare la presenza di qualcosa d’intangibile che gli ha permesso di raggiungere questi livelli assoluti, mettendo in secondo piano cosa è servito fare per diventarlo.
Sarà banale dirlo ma campioni non si nasce ma si diventa.