In questo inizio di nuovo secolo, si è affermato il concetto che lo sport può diventare uno sbocco professionale valido e perseguibile per i giovani. Anni fa intraprendere la carriera di atleta era una opzione poco considerata dalle famiglie, continuavano a frequentare le scuole in cui erano iscritti sino al termine del ciclo di studi. Perlomeno questa era la situazione italiana caratterizzata da un totale scollamento fra l’istituzione scolastica e il mondo sportivo, quest’ultimo generalmente avversato dai professori. Le famiglie, d’altra parte, raramente si ponevano la domanda relativa al futuro sportivo dei loro figli prima del raggiungimento della loro età adulta. Oggi la situazione è di molto cambiata. Le organizzazioni sportive premono perchè gli atleti promettenti si allenino molte ore a settimana, le famiglie pensano che la carriera sportiva sia un’occasione come le altre, talvolta anche la migliore e la più semplice da perseguire e i giovani si trovano tra queste due richieste e nel contempo anche loro si sintonizzano su questa opportunità. Inoltre, l’insegnamento nelle scuola italiana è piuttosto arretrato e poco diverso da come veniva svolto 100 anni fa e, quindi, gli adolescenti in generale non trovano un ambiente orientato al loro sviluppo come persona e all’acquisizione delle competenze caratteristiche del loro piano di studi.
Certamente lo sport appare come più divertente, appassionante e vario, anche se poi la pratica quotidiana non corrisponde a questo stereotipo, ma a mio avviso l’ambiente sportivo in cui s’inseriscono i giovani talenti è di solito stimolante, e guidato da tecnici più interessati allo sviluppo della persona e dell’atleta. Stiamo parlando di giovani che si allenano almeno 30 ore settimanali per 10 mesi. Quantità di tempo, comunque non diversa, da quella degli studenti che vogliono ottenere risultati altrettanto positivi a scuola.
La questione che nessuno si pone non è sulle nozioni da imparare, ma sul comprendere quanto l’abbandono della scuola o l’attività scolastica svolta in scuole private dove lo studio del programma è totalmente condizionato dall’attività sportiva rappresenti un limite allo sviluppo di questi giovani atleti. Ad oggi famiglie e organizzazioni sportive perseguono la loro strada e non esistono linee guida elaborate dal ministero dell’istruzione e da chi governa lo sport. In questa scelta le famiglie sono lasciate senza una guida e le federazioni scelgono le strade percorribili in funzione delle esigenze del loro sport. Una discussione sarebbe utile magari a partire da una migliore conoscenza dei modelli degli altri paesi.